Teus e Ficjos: facce della stessa moneta
Il tempo e le testimonianze fanno chiarezza sugli svariati soprannomi con cui gli abitanti del nostro paese venivano chiamati nell’arco di questi secoli. C’è stato un periodo, tra la fine del ‘700 e gli inizi ‘800, in cui i nostri avi erano conosciuti come “chei de Jote”, abili nel preparare tale portata che, a detta di chi ci ha riferito questo aneddoto, veniva considerata la migliore del circondario. La “Jota” era una zuppa tipica della nostra tradizione culinaria, costituita essenzialmente da ingredienti poveri che la terra lavorata “regalava”. Essa era considerata all’epoca una vera e propria pietanza “di ripiego”, che placava i morsi della fame nei periodi di miseria, quando anche la polenta con il latte era considerato un “piatto di lusso”.
Uno dei soprannomi più conosciuti (sopravvissuto sino ai nostri giorni) è senz’altro l’appellativo “Teu”. Ci sono varie ipotesi sulle sue origini, una di queste sarebbe che secondo alcuni, il soprannome nasca dal fatto che il bellissimo viale alberato che porta al nostro paese era (ed è ancora tutt’oggi) costituito da tigli. Una possibilità che scartiamo a priori visto che in friulano il tiglio viene detto “Tei” e non “Teu”. Quella più accreditata invece è che in tempi passati, per motivazioni a noi ancora sconosciute, il nome più comune che veniva dato ai neonati maschi in Val Pontaiba era Matteo, che in friulano si dice Macjeu e familiarmente Teu, tevut o cjeu (da qui il cognome Chieu). Per questo motivo, con molta probabilità visto il numero crescente di abitanti con quel nome, da un certo momento della storia in avanti, i Treppolani guadagnarono appunto il soprannome di “Teus”.
Come già detto, non sappiamo quale sia stata la motivazione scatenante che diede inizio a questo. Forse motivi religiosi legati all’apostolo San Matteo? Oppure connessi ad una figura di spicco dell’epoca dal nome Matteo? Ci piacerebbe scoprirlo.
Un Teu è per sempre?
In pochi si ricordano che, per ragioni molto meno nobili, gli abitanti della val Pontaiba venivano soprannominati anche “Ficjos”. Perché? Il 25 febbraio del 1894 il paese fu scosso da un fatto gravissimo. Cinque giovani di Treppo Carnico aggredirono l’allora curato Don Francesco Morassi. Il futile motivo di questo diverbio era da attribuirsi al baccano che il gruppetto di individui stava facendo ad ore tarde della notte proprio sotto la casa canonica. Ci fu una colluttazione dove ebbe la peggio Don Francesco, che finì con il prendersi tre coltellate. Fortunatamente l’aggressione non ebbe conseguenze letali per lui, che in seguito fu allontanato dalla curazia. Quando guarì scelse la strada del missionariato nella regione Indiana del Bengala. Il vescovo dell’epoca, ovviamente sconvolto dall’increscioso evento, decise di “castigare” l’intera popolazione lasciandola per oltre un anno senza un curato sostituto.
A celebrare le funzioni religiose durante quel momento di transizione se ne occupò il cappellano di Paluzza, originario di Cercivento. Ma anche questi incorse in notevoli difficoltà nel rapportarsi con la cittadinanza di Treppo. Un malessere che il cappellano un giorno, sfogò direttamente dall’altare della chiesa durante l’omelia ai fedeli presenti:
” Quanche rivi sul puint da l’Orteglas sint simpri un ucelut che al cjante: CJ’ A FICJI, CJ’A FICJI, CJ’ A FICJI…MA A MI NO MA FICJAIS VE’, FICJOS DA TREP!”
che tradotto significa…
“Quando arrivo sul ponte dell’Orteglas sento sempre un uccellino che canta: “te la caccio, te la caccio, te la caccio… ma a me non mi infilzate, Ficjos di Treppo!”
L’esternazione si riferiva ovviamente all’aggressione di Don Francesco. Non sappiamo a quali conseguenze portarono questo suo sfogo dal pulpito, ma è da quel momento che i Treppolani vennero etichettati con questo poco edificante soprannome: Ficjos. Che i nostri compaesani di allora non godessero di buona fama nei paesi limitrofi, lo confermano le parole dell’allora parroco di Ligosullo Don Filippo Antonio Morocutti, che all’ingresso del nuovo prelato a Treppo Carnico (Don Covassi), nel 1898 lasciò scritte queste parole:
“Caro Covassi vieni ad abitare in un bel nido (intendendo la casa canonica) ma in mezzo a brutti uccelli!”
Il tempo fugge e inganna
Teus e Ficjos, due facce della stessa moneta. Gente distante, nata e vissuta in una società dai canoni decisamente incomprensibili per le odierne coscienze. Terra di mascalzoni ed eroi, di padri di famiglia ed assassini. Contrabbandieri ed operai instancabili, alcoolizzati ed artisti. Più ti addentri nel suo passato è più ti rendi conto che il “nostro ieri” ha il sapore di un avventura in territori sconvolti, aspri nella loro spietata cronaca, testimoni silenziosi di leggi fai da te dettate dalla volontà di sopravvivenza che lascia poco spazio alle interpretazioni e ancor meno all’immaginazione. Terra di sacrificio e miseria dove la necessità sa trasformarsi a volte in virtù, a volte in viltà. Storie di confine, comuni a tutti i paesi della nostra amata Carnia.
I ricordi se lasciati correre a briglie sciolte, giocano scherzi alla memoria dell’incauto nostalgico che inavvertitamente prova a dipingere il quadro del suo passato con colori che non gli appartengono. L’edulcorato è d’obbligo, come lo è il richiamo al campanile, tra le pieghe di un tempo che non c’è più.