• I FORALARIS

    I foralaris: uno strano nome che per la maggior parte degli italiani non significa nulla, mentre per gli abitanti di Treppo Carnico rappresenta un momento di storia locale importante: ricorda un gruppo di lavoratori che si è fatto onore durante il periodo più caldo dell’emigrazione alla ricerca di mestieri per il sostentamento. I foralaris, dunque, erano dei boscaioli di Treppo Carnico che, durante la migrazione nella prima metà dell’800, hanno prima imparato un mestiere e poi perfezionandolo e praticandolo sono riusciti a procurarsi un benessere finanziario veramente ragguardevole.
    Tutto iniziò all’incirca nel 1830 quando una ditta lombarda assoldò una squadra di boscaioli di Treppo Carnico e delle sue frazioni (Siaio, Tausia, Zenodis e Gleris) portandoli in Austria dove era fortemente richiesta la loro mano d’opera. E’ qui che gli attenti operai appresero il mestiere e vi intuirono subito una prospettiva di guadagno: si trattava di estrarre dagli alberi di larice una sostanza chiamata pegola o trementina, un’oleoresina che, distillata, dava essenza di trementina, acquaragia e colofonia o pece greca.
    Nelle nostre zone nessuno aveva mai praticato tale attività e per questo i boscaioli che esercitarono questo strano lavoro vennero chiamati: foralaris oppure “chei de peule” o addirittura “chei dal arian”. In tedesco questo mestiere veniva definito con il termine lerchenbohrer.

    La vita di questi uomini era veramente dura e la loro giornata lavorativa si svolgeva in modo massacrante, con la sveglia ogni mattina prima delle quattro. Dopo una colazione a base di polenta e latte o caffè d’orzo con del pane nero, con in tasca un po’ di polenta e formaggio per la pausa pranzo, camminavano per ore per raggiungere i lariceti.
    La loro attrezzatura consisteva in un grosso coltello, una lunga trivella ed un mastello di legno ancorato alle spalle (la panagia) in cui versavano il prodotto raccolto.
    Il lavoro più importante, oltre alla accurata scelta dei larici maturi cioè prossimi al taglio con un diametro di almeno 35 – 40 cm, era praticare un grosso foro a la brusthöhe, cioè all’altezza del petto, e inserendoci la trivella allungarlo dall’alto verso il basso per tutta la lunghezza dell’arnese.
    I lombardi ed i trentini, che avevano sperimentato lo stesso mestiere, usavano invece forare dal basso verso l’alto, ma la fatica era doppia ed i risultati insoddisfacenti. E questo sistema veniva ripetuto per tanti innumerevoli alberi che poi avrebbero dato, se tutto andava bene, la loro linfa preziosa in autunno. In settembre quindi, con una sgorbia lunga esattamente quanto la trivella, i nostri foralaris percorrevano il foro, estraendone la pece che vi si era depositata.

    Dopo i primi raccolti che sicuramente diedero ai boscaioli grandi soddisfazioni, alcuni uomini di Treppo Carnico decisero che si sarebbero dedicati solamente a quel lavoro e, dimostrando notevole intraprendenza e spirito di iniziativa, ingaggiarono parecchi compaesani e si accinsero a partire verso la Carinzia e la Stiria dove i boschi di larice erano più abbondanti.
    Iniziatori e conduttori di queste imprese furono i Buzzi, i Colledani, i De Colle, i De Zotti ed i Plazzotta che formarono delle piccole squadre, cinque o sei persone al massimo, e con queste si avviarono verso quella nuova avventura.
    I posti più frequentati furono i dintorni di Friesach, di Zeltweg, di Oberwölz e Wolfsberg. Nei tempi migliori si può calcolare che gli uomini ingaggiati dai conduttori potessero essere circa un centinaio all’anno.
    Ammirevoli e per questo ancor oggi ricordati furono in particolare due conduttori: Totis da Paule che esercitò questo mestiere per più di cinquanta anni e Luigi Buzzi, il “Buz”,citato per la capacità ma anche per la sua generosità d’animo e per il suo altruismo.
    I conduttori garantivano agli operai un lavoro sicuro per circa cinque mesi, da maggio a settembre, e li trattavano più da consoci che da dipendenti perché lavoravano come loro, se non di più, per avere una buona resa ed un ottimo profitto; ed in più avevano anche l’onere dell’amministrazione e dello smercio del prodotto.

    I capisquadra dovevano inoltre visitare i boschi da utilizzare e scegliere possibilmente zone abbastanza contigue per limitare almeno la fatica degli spostamenti quotidiani da e per l’alloggiamento.
    L’abitazione consisteva in una baracca o in un fienile abbandonato che venivano usati come dormitorio ed anche come dispensa e cucina. Nell’alloggio, oppure nelle sue immediate vicinanze, c’era anche il deposito dei fusti della pegola raccolta ed adeguatamente filtrata, che i grossisti avrebbero poi acquistato a peso d’oro. I maggiori acquirenti del prodotto erano le ditte Deggischer di Bolzano, Küchler di Trieste e Oppenheimer di Dresda che, conoscendo la serietà dei carnici, andavano a colpo sicuro e quando era il momento di rifornirsi non rimanevano mai delusi dalla qualità del prodotto. Per poter estrarre la resina dagli alberi però i conduttori dovevano ottenere una specifica licenza dalla Capitaneria Distrettuale, Bezirkhauptmannschaft, di Judenburg o di Murau che la concedevano solo in base alla adesione dei proprietari dei boschi.
    I suddetti proprietari per fortuna non avevano nulla in contrario all’estrazione della resina in quanto l’operazione toglieva ai tronchi la loro vischiosità e quindi le segherie, che ne traevano assi e tavole, li compravano più volentieri perché la mancanza di pece permetteva una più facile scorrevolezza.
    I foralaris per gratitudine usavano donare a questi proprietari delle falci e delle coti di Bergamo, che probabilmente erano le migliori, e per le loro signore portavano dall’Italia dei bellissimi fazzoletti da testa, di lana o di seta, con colori vivaci che le donne d’Oltralpe gradivano moltissimo. In Stiria ed anche in Carinzia ci furono dei proprietari boschivi che tentarono d’estrarre in proprio la pegola dai loro boschi, ma non riuscirono mai ad eguagliare l’abilità, la capacità e l’indiscussa tenacia dei carnici. L’unica grossa difficoltà che rischiò di fermare questi emigranti treppolani fu una denuncia da parte di qualche concorrente alle autorità di Vienna, nella quale si ipotizzava il reato che il loro lavoro danneggiasse il legname da taglio e lo rendesse di qualità più scadente.
    In loro difesa, per fortuna, insorse il compaesano Luigi Buzzi, conoscitore del mestiere della lingua e delle leggi, si trasferì momentaneamente nella capitale e con maestria riuscì a far ricredere le autorità sull’operato dei suoi colleghi. Il ricorso fu accettato, tutto si sistemò nel migliore dei modi ed i foralaris di Treppo continuarono nella loro impresa che durò all’incirca un secolo.
    I guadagni che ne ricavarono furono veramente ragguardevoli; le ipotesi più accettabili sono quelle che parlano di paghe mensili triple o quadruple paragonate a quelle di un buon muratore. I proventi garantirono benessere alle famiglie e sensibili benefici alla vita dei borghi. In paese infatti i foralaris si dedicarono al ripristino e all’abbellimento delle case, che assunsero l’aspetto curato e decoroso che conservano tuttora, e alla ricostruzione degli stavoli di montagna rendendoli più comodi e sicuri. Tanto che nel secolo scorso, Treppo Carnico fu chiamato “Il paese delle belle case”, dove le abitazioni profumavano di “arian”.

    Fonti:
    Libro “Trep e i Teus”
    Eugenia Monego Ceiner
    Internet.

  • I CRAMÂRS

    8 settembre 1261: la data del primo documento in cui si parla dei cramârs. Il Patriarca Gregorio di Montelongo concedeva ai venditori di uno stabile acquistato a Sacile di prelevare il prezzo pattuito (corrispondente a 47 marche aquileiesi) dai proventi dei dazi di Tolmezzo, senza toccare un soldo di quanto si riscuoteva dai cramârs “medietatis mutae de Tumèz, excepta muta cramariorum”.
    Il periodo florido in chiave economica per i cramârs fu quello vissuto sotto la dominazione della Repubblica di San Marco. Molti uomini quindi fin dai primi anni del 500 abbandonarono la Carnia per affrontare le strade del Nord per attività di piccolo commercio ambulante (cramârs, dal tedesco Krämer, merciaio) o per impiantarvi successivamente botteghe di assoluto prestigio, magari dopo aver “tedeschizzato” il proprio cognome (Morassi in Morasch, Moro in Mohr, De Rivo in Von Bach ecc.).

    I cramârs, con la loro “crame” o “crasigne” (basto in legno provvisto di spallacci per il trasporto sulla schiena della mercanzia), approdarono principalmente in: Austria (15%); Ungheria, Moravia, Polonia (18%); Germania (56%). Questi venditori ambulanti commerciavano in spezie, coloranti, erbe officinali, stoffe, provenienti dal porto di Venezia, che essi acquistavano in Patria tramite grossisti e negozianti locali. Alcuni di loro erano pure tessitori o “scarpari”, del resto spostandosi a piedi le scarpe diventavano un bene basilare. Altri sapevano fare i cataplasmi, curavano i pazienti mediante il “bocconcino purgante”, il “cerotto angelico meraviglioso” o la “teriaca”, rimedio universale per tutti i mali di cui Venezia, mutuando segrete alchimie rubate ai popoli d’Oriente, riuscì a conquistare una specie di monopolio. La necessaria migrazione stagionale verso la Mitteleuropa comunque mise a dura prova questi uomini che in alcuni Paesi europei furono considerati imbroglioni e traffichini, assimilabili ai “vu’ cumprà” odierni. Partivano appena finiti i lavori agricoli, con l’inizio della stagione fredda, vagando di paese in paese, fino ai più sperduti casolari di montagna affrontando i rischi dei lunghi e gelidi inverni del nord. Battevano ciascuno la stessa zona, tornandovi ogni anno: si conquistarono in questo modo la stima e la simpatia dei clienti assicurandosi la possibilità di ritornare e lasciando ai loro discendenti, che li sostituirono lungo i secoli e che si mantennero fedeli alle consegne, il patrimonio dell’esperienza e della clientela.

    “…per tre secoli, la vita dei villaggi della Carnia pulsò a ritmi alterni: concitata, vociante, stipata di racconti e di sagre, di amori e di rese dei conti d’estate; quando l’alito appannava i vetri dell’inverno diventava spenta nel bisbiglio dei vecchi, nell’immaginazione dei bambini, nell’anche ardito chiacchierare delle donne in fila e nel sonno delle bestie”. Questi venditori, in lunghi secoli di migrazioni, valicarono i monti, sostennero le famiglie, costruirono la casa, ottennero benessere per loro e per le proprie Comunità. E poi “… i carnici disponendo di poca terra coltivabile, debbono andar per il mondo” (Girolamo di Porcia, 1560); e ancora “emigrano l’inverno, ed ogni estate si rendono a casa per le messi; e, dopo sistemati gli affari domestici, si affrettano a tornare alle primitive occupazioni, procacciandosi in tal guisa non poca somma di numerario” (Fabio Quintiliano Ermacora 1567 – 1598 nelle “Antichità della Carnia”)
    Alla partenza o durante il passaggio, sostavano per una preghiera nella chiesa di Santa Maria di Paluzza, dove incidevano il loro “logo” sul muro dietro l’altare ligneo, che ancora oggi esibisce decine di questi graffiti. I marchi dei cramârs erano segni di riconoscimento e garanzia che venivano tramandati ai successori, fino a divenire distintivo della famiglia. Venivano scolpiti nelle serrature degli usci o intagliati sugli attrezzi e sui mobili, perfino sulle masserizie in legno o peltro. L’uso dei marchi è confermato, come evidenziato sopra, nella chiesa parrocchiale di Paluzza: sul muro dietro l’altare della Madonna, vi sono graffiti di numerosissimi marchi, tutti diversi con le iniziali dei nomi e datati nel Seicento, Settecento e perfino nel Cinquecento. I cramârs del luogo o di passaggio, quindi, prima di esporsi ai rischi e alle fatiche del viaggio, passavano in visita nella chiesa per invocare la protezione e l’assistenza.
    Gli itinerari dei cramârs carnici ricalcavano fedelmente le antiche piste carovaniere percorse in età antica dalle popolazioni preistoriche e trasformate in strade dai romani.

    Si conoscono le due principali e più antiche vie battute dai cramârs. La prima, dal valico di Monte Croce Carnico (Plöckenpass, m. 1362), scende alla Gailtal (Valle del Gail), quindi per Oberdrauburg porta al passo dei Tauri (Heiligenblut); l’altra che dalla Valcanale – Tarvisio, attraverso Spital, sale al Katschberg (m. !641) e al Radstättertauern (m. 1738). Ambedue gli itinerari proseguivano per Salisburgo. Comunque la più importante via di transito è stata senz’altro quella del Passo Monte Croce Carnico, naturale ponte alpino: ricalcava il tracciato della consolare romana “Via Julia Augusta” che congiungeva Aquileia a Wilten (l’antica Veldidena) presso Innsbruk. Una volta raggiunto il passo, la via si immetteva, attraverso il passo del Gailberg, anche nell’alta valle della Drava. Toccava quindi Lienz per portarsi a San Candido e, attraverso la Pusteria, giungeva a Bressanone. Di qui la strada proseguiva per il Brennero, Innsbruk e quindi Monaco ed Augusta.
    Nel 1679 in Italia dilagava dal nord il flagello della peste e così la Sanità della Serenissima Repubblica di Venezia effettuò un censimento per tenere sotto controllo i suoi territori e volle conoscere quanti fossero e dove si trovassero “li cargnelli fuora del paese di Cargna”. Ogni casa fu censita da notai, merighi e giurati. Furono compilate 107 schede intestate a 106 ville che segnalavano 1704 emigrati su una popolazione di circa 21 mila abitanti, divisi in due distinte zone. La bassa Carnia cioè il canale di Socchieve (da Amaro ad Ampezzo) con 589 assenti e la media e la alta Carnia (Canale di Gorto, con annesse Val Pesarina e Valcalda, e canali di San Pietro e di Incarojo) con 1115 uomini dediti ai traffici mercantili oltrefrontiera sul territorio compreso tra il corso del Reno e dell’Oder. Mancava più dell’ 8% della popolazione globale e più del 25% dei maschi maggiori di quindici anni!
    Il lavoro di venditore ambulante portò ricchezze alterne. Sicuramente nei paesi carnici mutò l’aspetto urbanistico, poiché le case furono costruite in pietra, a più piani, con le caratteristiche bifore squadrate e con il tetto a scandole; prima c’erano bassi edifici con poca malta, tanto legno e con il tetto di paglia, quindi a forte rischio di incendio. Le chiese dei paesi furono arricchite di paramenti sacri di grande valore artistico e di scuola centro- europea: quadri, sculture, stendardi, croci, calici e ostensori. Il fattore sociale ed economico più importante che spicca nell’intera vicenda dei cramârs è l’intraprendenza dei nostri avi: dimostrarono una indubbia capacità imprenditoriale, trovando un efficace rimedio alle scarse risorse della terra di Carnia e riuscendo a scrivere una pagina straordinaria della storia del popolo carnico. Ulteriori informazioni puoi trovarle al seguente link “La vicenda dei Cussina”.

    Fonti:
    Libro “CRAMÂRS” di Giorgio Ferigo e Alessio Fornasin – Stampa Arti Grafiche Friulane 1997
    Internet.

  • I CJARADÔRS

    Questo termine invita a lasciarsi trasportare dalla memoria in un mondo antico, non molto lontano e forse costellato da ricordi impregnati da un po’ di malinconia. Il cjaradôr è uno dei mestieri del passato quando ancora non esistevano gli attuali mezzi di trasporto. Infatti, un tempo, prima dell’arrivo delle automobili e degli autocarri, i “cjaradôrs” avevano l’esclusiva a percorrere le strade con i loro carri e i loro cavalli. In verità anticamente il carro era trainato da buoi che castrati si dimostravano mansueti; solo in un secondo tempo arrivarono i cavalli a sostituirli.
    Chi praticava questo mestiere si specializzava nel trasporto di cose o persone e il costo variava in base al peso della merce. Chi trasportava le persone disponeva sul carro anche di due panche in legno con dieci posti a sedere. L’ultimo ciaradôr che in paese ha effettuato questo “servizio taxi” è stato “Bidotti”.
    In paese i cjaradôrs più conosciuti erano quelli che provenivano dalla famiglia di “Pierin di Sjin” ed inoltre i due “Scimon”: Simone Prodorutti e Simone Cortolezzis detto “il barbon”. Simone Prodorutti (1916 – 1989) fu l’ultimo treppolano che praticò questo mestiere. Aveva ereditato il mestiere dal padre e già a sedici anni era diventato il suo braccio destro nel trasporto di legname in cartiera; così per venticinque anni. Dopo, alla fine della seconda guerra mondiale, fu dipendente insieme al fratello Paolo “Pagjele” della segheria Cortolezzis. Grazie ai suoi viaggi fino a Tolmezzo riforniva la locale cooperativa di tutti i generi alimentari necessari per la comunità di Treppo.

    Leo e Lea, così si chiamavano i due animali, erano considerati a tutti gli effetti componenti della famiglia Prodorutti: ospitati “tal stalon” venivano accuditi con attenzione ed affetto e si provvedeva a tutte le loro necessità; le due figlie di Simone ogni giovedì, a quei tempi giornata libera da impegni scolastici, portavano la segatura per la loro pulizia. I due cavalli conoscevano talmente bene il tragitto che si fermavano da soli alle osterie che il loro padrone frequentava con maggiore assiduità! Dovevano essere degli amici fantastici: affezionati, muti e fidati!

    I due equini erano utilizzati anche come valido aiuto negli interventi forestali, su piste malsicure, a sostegno del pesante lavoro dei boscaioli per trasportare i tronchi nelle segherie. Simone poi era solito trasportare ghiaia, sabbia, mattoni e laterizi vari utili per la costruzione di edifici: il fabbricato a tre piani in via Dante, conosciuto in paese come la “cjase di Vilio”, è stato realizzato interamente con materiale trasportato dal Prodorutti.
    Durante il periodo invernale, inoltre, egli usufruiva dei cavalli per fornire il servizio di spazzaneve lungo le vie del paese. Insomma un mezzo di trasporto a tutto fare fino al 1957!
    Infatti alla fine degli anni ’50 piano piano, quando i trasporti non richiesero più carri e cavalli, questa figura caratteristica dei nostri paesi venne inevitabilmente a mancare.

    Fonti:
    Libro “Trep e i Teus”
    intervista alle signore Nella e Maria Prodorutti